Meta vince in tribunale, ma il copyright nell’era dell’IA resta un terreno minato

Meta segna un punto a favore nell’acceso dibattito tra intelligenza artificiale e diritti d’autore. Un giudice federale degli Stati Uniti ha respinto una causa intentata da un gruppo di autori, che accusavano il colosso tecnologico di aver utilizzato le loro opere senza autorizzazione per addestrare il modello linguistico “Llama”.

La decisione è arrivata dalla Corte distrettuale di San Francisco, dove il giudice ha stabilito che gli scrittori ricorrenti non sono riusciti a sostenere adeguatamente le proprie tesi e a fornire le prove necessarie. Tuttavia, il magistrato ha voluto chiarire che il pronunciamento riguarda esclusivamente le modalità e le lacune della causa presentata, senza con ciò legittimare in via generale l’utilizzo di materiale protetto da copyright nei processi di addestramento dei sistemi di IA.

Una precisazione importante in un contesto giudiziario che si sta rapidamente popolando di procedimenti simili. Qualche giorno prima, un’altra sentenza dello stesso tribunale aveva assolto la società Anthropic dall’accusa di aver violato il copyright addestrando il chatbot “Claude” su libri protetti. In quel caso, il procedimento era stato ritenuto “trasformativo” al punto da non configurare una violazione, anche se resta in piedi un’accusa distinta per l’illecita acquisizione di quei contenuti da siti pirata.

Chhabria ha criticato questa impostazione, osservando come si sia forse attribuito troppo peso al carattere trasformativo dell’uso dell’intelligenza artificiale, trascurando il rischio concreto di un danno al mercato delle opere originali. “È difficile immaginare — ha scritto il giudice — che possa essere considerato uso corretto prendere libri coperti da copyright per costruire strumenti in grado di generare miliardi di dollari e un flusso virtualmente infinito di opere concorrenti, capaci di compromettere il mercato di quei libri”.

Il caso evidenzia un nodo centrale nel rapporto tra creatività e nuove tecnologie: i grandi modelli di intelligenza artificiale hanno bisogno di enormi volumi di dati per perfezionarsi, ma sempre più musicisti, scrittori, artisti e testate giornalistiche denunciano di vedere le proprie opere saccheggiate senza consenso né compenso.


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Proprietà esclusiva e parti comuni in condominio: chiarimenti dalla Cassazione

Un’importante pronuncia della Corte di Cassazione interviene a chiarire i confini tra proprietà esclusiva e parti comuni negli edifici condominiali. Con la sentenza n. 16622/2025, i giudici di legittimità hanno respinto il ricorso di alcuni condomini che rivendicavano la piena proprietà di una porzione di lastrico solare, comprendente anche gli spazi lasciati liberi sulla verticale del fabbricato per la possibile installazione di un ascensore, nonostante questo non fosse mai stato realizzato.

Il caso: lastrico venduto per edificare, ma con aree libere non utilizzabili

La vicenda riguardava un edificio costruito in più fasi, dove ai vari acquirenti erano stati ceduti i lastrici solari allo stato grezzo, con il diritto di edificare sopra di essi la propria abitazione. In assenza di precise indicazioni contrattuali circa la destinazione degli spazi non edificati, alcuni condomini avevano rivendicato come propria anche la parte di colonna d’aria rimasta libera per consentire l’eventuale posa di un vano ascensore.

A sostegno della loro pretesa, i ricorrenti avevano sottolineato il fatto che nessun ascensore fosse stato mai installato e che, secondo la planimetria originaria, quella porzione risultava annessa al lastrico acquistato.

La decisione della Cassazione: prevale la funzione comune degli spazi

La Suprema Corte ha tuttavia rigettato le istanze, affermando che, in simili situazioni, l’individuazione della proprietà esclusiva e delle parti comuni deve fondarsi non solo sul contenuto dei contratti, ma anche sul bene così come effettivamente realizzato. Nel caso specifico, ha rilevato la Corte, tutti gli acquirenti, dopo aver edificato il proprio appartamento, avevano annotato catastalmente la presenza del vano ascensore, riconoscendo di fatto la destinazione comune di quello spazio.

Nemmeno l’assenza dell’ascensore è elemento decisivo, ha puntualizzato la Corte, poiché ciò che conta è la funzione strutturale e potenziale dell’area rispetto all’intero fabbricato. In assenza di precise attribuzioni contrattuali, spazi come quelli destinati alle colonne per gli impianti comuni devono considerarsi di proprietà condominiale ai sensi dell’art. 1117 del codice civile.

Il principio di diritto affermato dalla Corte

La Cassazione ha così fissato il principio per cui l’acquirente di un solaio o lastrico allo stato grezzo, con diritto di edificare il proprio appartamento, non diventa proprietario — salvo espressa diversa indicazione nel titolo — della porzione di colonna d’aria priva di tramezzature e non usufruibile, che resta di proprietà condominiale. Una precisazione destinata a incidere sulle future controversie in materia edilizia e condominiale, soprattutto nei casi di immobili costruiti per lotti successivi.


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Specializzazioni forensi, il Consiglio dell’Ordine di Firenze interpella il CNF: chiarimenti su corsi, requisiti e obblighi informativi

Prosegue il confronto tra i Consigli degli Ordini forensi e il Consiglio nazionale forense in materia di formazione specialistica degli avvocati. Con una recente istanza, il Consiglio dell’Ordine di Firenze ha sottoposto al CNF tre quesiti riguardanti la disciplina sul mantenimento del titolo di avvocato specialista, chiedendo chiarimenti sulle modalità di frequenza dei corsi di alta formazione, sulla possibilità di alternare formazione e incarichi professionali ai fini del rinnovo e sugli obblighi informativi verso i clienti.

Il CNF ha risposto con il parere n. 29 del 23 maggio 2025, fornendo indicazioni puntuali che confermano, da un lato, la rigidità della normativa vigente e, dall’altro, la necessità per gli Ordini di adeguarsi alle previsioni regolamentari già stabilite.

Definizione di corsi e scuole di alta formazione: nessuna deroga possibile

Sul primo punto, il Consiglio fiorentino chiedeva di chiarire quali corsi di alta formazione fossero effettivamente validi per il mantenimento del titolo. Il CNF ha confermato che valgono esclusivamente quelli organizzati dal CNF, dai Consigli dell’Ordine o dalle associazioni forensi specialistiche maggiormente rappresentative, secondo quanto previsto dalle Linee Guida per la Formazione specialistica degli avvocati, approvate ai sensi del D.M. 144/2015, come modificato dal D.M. 163/2020.

Per il mantenimento del titolo di specialista è necessario acquisire almeno 75 crediti nel triennio, e non meno di 25 per anno, attraverso partecipazione a corsi, convegni e seminari nello specifico settore di specializzazione.

Formazione e incarichi professionali: impossibile alternare annualmente

Quanto al secondo quesito — la possibilità di alternare annualmente, ai fini della permanenza del titolo, corsi di alta formazione e trattazione di incarichi professionali qualificanti — il CNF ha chiarito che l’attuale normativa non consente alcuna deroga interpretativa rispetto a quanto disposto dagli articoli 10 e 11 del D.M. 144/2015. La normativa prevede un criterio cumulativo e non alternativo tra formazione e incarichi. In assenza di una modifica regolamentare, pertanto, resta obbligatoria la partecipazione continuativa ai corsi previsti.

Obbligo di informativa ai clienti: confermato come adempimento deontologico

Infine, in merito alla terza questione sull’obbligo, per l’avvocato, di dichiarare esplicitamente di aver fornito ai propri clienti l’informativa scritta sul trattamento dei dati personali, il CNF ha confermato la necessità di questo adempimento. Nonostante la richiesta di anonimizzazione dei dati riportati nella documentazione per il mantenimento del titolo, l’avvocato resta tenuto a rispettare il Regolamento UE 679/2016 e gli obblighi deontologici connessi. La dichiarazione di aver fornito l’informativa, quindi, rappresenta una logica e doverosa conseguenza di quanto imposto dalla normativa europea e nazionale.


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Permessi premio in carcere, la Consulta cancella il divieto automatico per chi commette reati durante la detenzione

Nuova pronuncia della Corte costituzionale in materia penitenziaria. Con la sentenza n. 24 del 2025, la Consulta ha dichiarato illegittima la norma che impediva per due anni la concessione di permessi premio ai detenuti imputati o condannati per reati commessi durante l’esecuzione della pena. Una preclusione automatica che, secondo i giudici costituzionali, viola la presunzione di non colpevolezza e comprime la funzione rieducativa del carcere, ostacolando la valutazione individuale del percorso di reinserimento.

Il caso: un permesso negato e il ricorso alla Corte

Tutto nasce dalla vicenda di un detenuto, in carcere dal 2017, che aveva chiesto di poter beneficiare di un permesso premio. La richiesta era stata dichiarata inammissibile in forza dell’articolo 30-ter, quinto comma, della legge sull’ordinamento penitenziario, che vietava per due anni la concessione di permessi a chi, durante la detenzione, fosse stato condannato o imputato per un nuovo reato. Nel caso specifico, il detenuto era stato rinviato a giudizio per aver tentato di introdurre droga in carcere per conto di un altro recluso.

Il magistrato di sorveglianza di Spoleto, però, ha ritenuto quella norma in contrasto con i principi costituzionali e ha rimesso la questione alla Corte costituzionale.

Il punto della Corte: presunzione di innocenza oltre il processo penale

La Consulta ha colto l’occasione per riaffermare con chiarezza che la presunzione di non colpevolezza non si limita al solo processo penale, ma produce effetti in ogni ambito giudiziario fino a sentenza definitiva. Imporre un divieto automatico sulla base di un semplice rinvio a giudizio significa, di fatto, considerare il detenuto colpevole prima che la giustizia abbia accertato la sua responsabilità. Una simile disposizione, ha osservato la Corte, priva il magistrato di sorveglianza della possibilità di ascoltare l’interessato, valutarne le difese e ponderare l’effettiva gravità del fatto.

Il richiamo alla funzione rieducativa della pena

Ma c’è di più. La Corte ha ribadito che il carcere non può ridursi a semplice contenitore punitivo: la pena deve tendere alla rieducazione del condannato. Proprio per questo il giudice di sorveglianza deve poter valutare in concreto i progressi compiuti da ogni detenuto e la sua eventuale pericolosità sociale residua. Automatismi come quello previsto dalla norma censurata risultano oggi incompatibili con una giurisprudenza costituzionale ed europea sempre più orientata a valorizzare la personalizzazione del percorso detentivo e il diritto al reinserimento.

Quando il precedente non basta più

Curiosamente, una questione analoga era stata esaminata già nel 1997, quando la Corte ritenne la norma allora in vigore compatibile con la Costituzione, pur auspicando un intervento legislativo di segno diverso. Questa volta, però, i giudici costituzionali hanno sottolineato che le ragioni di contesto e la successiva evoluzione della giurisprudenza — nazionale e sovranazionale — impongono di rivedere quella posizione.

Una decisione che rafforza i diritti in carcere

Il principio affermato dalla sentenza è chiaro: anche di fronte a reati commessi durante la detenzione, spetta sempre al magistrato di sorveglianza valutare caso per caso se concedere o meno benefici premiali, tenendo conto della condotta complessiva del detenuto, della natura del fatto e delle esigenze di sicurezza. Automatismi che impediscano questa valutazione non sono più compatibili con il nostro ordinamento.


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Danno patrimoniale da infortunio: il risarcimento spetta anche senza ricerca di un nuovo lavoro

Un’importante pronuncia della Corte di Cassazione ridefinisce i criteri per il risarcimento del danno patrimoniale da perdita della capacità lavorativa a seguito di sinistro. Con l’ordinanza n. 16604 del 23 giugno 2025, la Terza sezione civile ha infatti chiarito che non è possibile rigettare la domanda di risarcimento solo perché la vittima non ha cercato un nuovo impiego, senza prima aver accertato il danno nella sua effettiva entità.

Il caso concreto e il ribaltamento della decisione

La vicenda trae origine da un incidente stradale che aveva causato a una lavoratrice, dipendente di un’impresa di pulizie, una grave lesione all’omero. Il successivo periodo di convalescenza aveva determinato la perdita del posto di lavoro e, a causa dei postumi permanenti, l’impossibilità di svolgere nuovamente le stesse mansioni.

Dopo un primo rigetto totale in tribunale, la Corte d’appello aveva riconosciuto il nesso causale tra l’infortunio e il licenziamento, ma aveva liquidato il danno patrimoniale solo per sei mesi, ritenendo che la donna, se diligente, avrebbe potuto trovare in quel periodo una nuova occupazione. Una conclusione bocciata dalla Suprema Corte.

I criteri fissati dalla Cassazione

Nel suo intervento, la Cassazione ha censurato il ragionamento della Corte territoriale, che aveva invertito l’ordine logico degli accertamenti: prima di valutare se la vittima abbia cercato un nuovo lavoro, è indispensabile stabilire se il sinistro le abbia effettivamente compromesso, in tutto o in parte, la capacità di guadagno e quale sia l’effettivo danno patrimoniale subito.

Solo successivamente, ha precisato la Corte, si potrà considerare un eventuale aggravamento del danno dovuto all’inerzia della vittima nel cercare una nuova occupazione. Una valutazione che però non può prescindere dal previo accertamento della perdita patrimoniale già verificatasi.

No agli automatismi tra invalidità e perdita di reddito

Altro aspetto chiarito dalla decisione riguarda l’erroneità di presumere automaticamente una riduzione di reddito basandosi esclusivamente sulla percentuale di invalidità lavorativa accertata dal medico-legale. Secondo la Cassazione, è necessario verificare concretamente se e quanto la lesione incida sulle mansioni svolte e sulla possibilità di trovare un’occupazione compatibile con i postumi.

Tre principi di diritto e una netta presa di posizione

La Suprema Corte ha quindi fissato tre principi di diritto fondamentali:

  1. Il danno patrimoniale da perdita della capacità di guadagno va accertato nella sua interezza, valutando il grado dei postumi e la loro compatibilità con l’attività lavorativa pregressa.

  2. Non esiste alcun automatismo tra percentuale di invalidità e danno patrimoniale: la perdita economica va dimostrata, anche per presunzioni, ma senza scorciatoie aritmetiche.

  3. La mancata ricerca di un nuovo lavoro non può essere motivo sufficiente per respingere la domanda di risarcimento, se prima non è stata quantificata la perdita patrimoniale conseguente all’infortunio.


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Processo penale, l’appello a rischio: il vento efficientista ridisegna le impugnazioni

Nel processo penale il giudizio d’appello rischia di perdere progressivamente la sua funzione di riesame nel merito della decisione di primo grado. A segnalarlo sono diversi esperti e operatori del diritto, che vedono nella lunga stagione di riforme — dalla Commissione ministeriale del 2014, passando per la legge Orlando del 2017 fino alla recente riforma Cartabia — una progressiva erosione delle garanzie difensive in nome di un’efficienza processuale che privilegia la rapidità sulla qualità delle decisioni.

Al centro del dibattito c’è il concetto di sfavor impugnationis, ovvero la tendenza a scoraggiare le impugnazioni, considerate un inutile rallentamento per il cosiddetto “processo breve”. Un orientamento che, secondo una parte della dottrina, ha trasformato il secondo grado di giudizio da strumento di verifica autonoma delle decisioni a semplice controllo formale della motivazione della sentenza impugnata.

Il rischio di una giustizia superficiale

Il tentativo di accelerare i tempi processuali ha prodotto una serie di interventi normativi e giurisprudenziali che puntano a restringere le maglie delle impugnazioni, a partire dalla richiesta di una sempre più marcata specificità dei motivi d’appello. Una tecnica che, secondo molti, finisce per assimilare l’appello a un ricorso per cassazione, basato sul controllo della motivazione e non più sull’analisi sostanziale della decisione.

Il paradosso evidenziato da penalisti e studiosi è che si richiede al difensore di costruire motivi d’appello rapportati puntualmente alla sentenza impugnata, senza però aver modificato in modo coerente le norme sulla cognizione del giudice d’appello. Il risultato è una procedura ibrida e confusa, in cui l’appello oscilla tra gravame di merito e ricorso motivazionale.

Cassazione più leggera, meno garanzie per gli imputati

Il quadro si complica ulteriormente se si considera l’obiettivo implicito di sgravare la Corte di Cassazione dai ricorsi motivati da vizi di motivazione, trasferendo il relativo controllo alle Corti d’appello. Così facendo, il secondo grado perderebbe la possibilità di riesaminare il fatto e la prova, limitandosi a vagliare la coerenza logica delle sentenze.

Un’evoluzione che, avvertono i critici, finirebbe per ridurre drasticamente le garanzie del sistema penale, aumentando il rischio di errori giudiziari irreparabili. Del resto, un controllo formale sulla motivazione difficilmente riuscirà a cogliere eventuali travisamenti della prova o valutazioni manifestamente ingiuste.

Un modello processuale sempre più selettivo

Altra criticità riguarda il rischio di una progressiva estensione nel giudizio d’appello della cultura dell’inammissibilità per manifesta infondatezza, già ampiamente diffusa in Cassazione. Una selezione all’ingresso che, sommata alla restrizione dei poteri di cognizione nel merito, potrebbe svuotare l’appello di ogni funzione effettiva di controllo sostanziale sulla decisione di primo grado.

Conclusioni: il prezzo del processo breve

Quello che si prospetta, dunque, è un processo penale dove il diritto alla doppia conforme — pilastro di qualunque sistema garantista — diventa un fatto sempre più residuale. L’ossessione per i tempi rapidi e il richiamo strumentale all’efficientismo imposto dal PNRR rischiano di sacrificare i principi di verità e giustizia, che dovrebbero restare valori irrinunciabili in uno Stato di diritto.


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Fisco, stretta sulle partite IVA: più controlli per chi rifiuta il concordato

L’Agenzia delle Entrate alza il livello di vigilanza sulle partite IVA che sceglieranno di non aderire al concordato preventivo biennale per il 2025-2026. Lo rende noto la circolare 9/E/2025, che fissa i criteri aggiornati di accesso e illustra le conseguenze per chi resterà fuori dall’accordo, previsto per oltre due milioni di contribuenti soggetti agli indici sintetici di affidabilità fiscale (ISA).

Se da un lato il nuovo concordato premia i soggetti più virtuosi, dall’altro rafforza i controlli nei confronti di chi non coglierà l’opportunità. Gli accertamenti fiscali potranno infatti contare su un utilizzo più intenso delle banche dati a disposizione del Fisco, compresa la Superanagrafe dei conti correnti, che contiene informazioni di sintesi sui rapporti finanziari di ogni contribuente.

Controlli mirati e incroci di dati

Nessuna “caccia alle streghe”, sottolineano dall’amministrazione finanziaria, ma un’attenzione rafforzata verso le posizioni che, oltre a non aderire al concordato, presentano indicatori di rischio fiscale. Gli incroci tra i dati dichiarativi, i conti correnti e le informazioni già in possesso dell’Agenzia e della Guardia di Finanza consentiranno di costruire profili di rischio più accurati, in modo da programmare controlli mirati e interventi selettivi.

Chi aderirà, invece, dovrà garantire trasparenza assoluta: sarà necessario attestare la veridicità dei requisiti e l’assenza di cause ostative, oltre a rispettare obblighi dichiarativi e contabili. In caso contrario, decadranno i benefici ottenuti, e i contribuenti saranno esposti a sanzioni e verifiche.

Più sanzioni per chi è a rischio

A rendere più stringente il quadro è anche il recente dimezzamento delle soglie che fanno scattare le sanzioni accessorie. Chi sarà colto in violazione — oppure decadrà dal concordato dopo averlo accettato — rischia ora l’interdizione dalle cariche societarie, l’esclusione dagli appalti pubblici e la sospensione dall’esercizio dell’attività.

Il provvedimento rafforza il sistema premiale previsto per i contribuenti più affidabili e amplia i poteri di controllo verso chi non aderisce, prevedendo anche un impiego integrato delle informazioni finanziarie con i dati di archivi pubblici e privati.

Le nuove soglie e le modifiche

Tra le novità principali introdotte dal decreto correttivo figurano le nuove soglie per l’adesione: incrementi di reddito stimati tra il 10% e il 25% a seconda del punteggio ISA ottenuto nell’anno precedente. Cambiano inoltre le regole per il recupero degli aiuti di Stato, le agevolazioni per le assunzioni e le modalità di accertamento.


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Nordio incontra per la prima volta il Servizio Esecuzione sentenze della CEDU

Roma, 25 giugno 2025 – Il Ministro della Giustizia Carlo Nordio ha incontrato ieri, nella sede del Ministero in via Arenula, la delegazione del Servizio Esecuzione delle sentenze della Corte Europea dei diritti dell’uomo (CEDU), a margine di una visita di due giorni in Italia della stessa delegazione.

“È la prima volta che una delegazione del Servizio Esecuzione sentenze del Consiglio d’Europa svolge una missione in Italia e ciò testimonia l’importanza che il nostro Paese riserva alla Convenzione europea per i diritti dell’uomo e alla tutela dei suoi valori”, ha commentato il Ministro; “si tratta di un primo importante passo di un percorso volto a creare uno stabile canale comunicativo tra le istituzioni italiane e le articolazioni del Consiglio d’Europa. Seguiranno quindi altri incontri tecnici”.

La delegazione era composta, tra gli altri, da Gianluca Esposito, Direttore Generale del Consiglio d’Europa; Frederic Dolt, Direttore del Servizio Esecuzione diritti umani; Dimitryna Lilovska, Capo Divisione Esecuzioni; Matteo Fiori, Capo della Sezione IV che si occupa dell’esecuzione delle decisioni della CEDU emesse nei confronti dell’Italia; Lorenzo D’Ascia, Agente del Governo italiano di fronte alla Cedu; e Maria Cristina Ribera, esperto giuridico della Rappresentanza Permanente dell’Italia presso il Consiglio d’Europa.

La stessa delegazione, che ha espresso grande apprezzamento per l’importanza di questa prima missione, sarà domani in visita a Palazzo Chigi.


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Codice rosso, la Consulta interviene sulle pene: necessario prevedere attenuanti per i casi lievi

Le pene previste dal Codice rosso per le lesioni permanenti al viso devono poter essere calibrate in base alla gravità effettiva dei fatti. Lo ha stabilito la Corte costituzionale con la sentenza n. 83, depositata il 20 giugno 2025, dichiarando parzialmente illegittimo l’articolo 583-quinquies del codice penale per eccessiva rigidità sanzionatoria.

La norma in questione — introdotta dalla legge n. 69 del 2019, il cosiddetto “Codice rosso” — punisce con la reclusione da otto a quattordici anni chi causa deformazioni permanenti al volto. Secondo la Consulta, però, la disposizione non contempla la possibilità di ridurre la pena nei casi di lieve entità, violando così i principi di proporzionalità, individualizzazione della pena e funzione rieducativa sanciti dalla Costituzione.

I casi esaminati

La pronuncia trae origine da tre procedimenti penali aperti a Taranto, Bergamo e Catania per episodi di gravità molto diversa: da una cicatrice di pochi centimetri sotto la palpebra a un morso durante una festa, fino a una lesione mascellare aggravata dall’uso di armi. Nonostante le evidenti differenze, tutti rientravano nella medesima cornice edittale, senza margini per una valutazione attenuata.

Il principio affermato dalla Consulta

Richiamando la propria giurisprudenza sulla necessità di una “valvola di sicurezza” nelle previsioni sanzionatorie più severe, la Corte ha sottolineato come un minimo edittale elevato e un ventaglio ampio di condotte punibili impongano di riconoscere al giudice la possibilità di graduare la pena, specie quando il fatto è oggettivamente di scarsa entità o privo di dolo intenzionale.

La Consulta ha inoltre censurato il secondo comma dell’articolo, che disponeva l’automatica interdizione perpetua dai pubblici uffici per chiunque venisse condannato o patteggiasse per questo reato. Anche in questo caso, la Corte ha imposto che la pena accessoria sia applicabile a discrezione del giudice e comunque entro i limiti di durata fissati dalla legge.

Pur riconoscendo la ratio di tutela personale e sociale alla base della norma del Codice rosso, la Corte costituzionale ha ribadito che la severità delle pene deve sempre essere bilanciata da strumenti di flessibilità che permettano di tenere conto della concreta gravità del fatto e della personalità dell’imputato.


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Tribunale per i minorenni, invio atti via PEC: 8 euro il costo per copia penale

Anche nel processo penale minorile l’invio di copie di atti via PEC o email avrà un costo forfettizzato di 8 euro per ciascuna trasmissione, indipendentemente dal numero di pagine. Lo ha stabilito il Ministero della Giustizia con il provvedimento n. 0111883 del 10 giugno 2025, chiarendo l’applicazione dell’articolo 269-bis del Testo unico spese di giustizia (TUSG) alle richieste di copie penali presso i Tribunali per i minorenni.

La questione sollevata da Bari

A porre il tema è stata una nota del Presidente del Tribunale per i minorenni di Bari, che aveva segnalato come negli uffici minorili, dove il fascicolo informatico e il sistema gestionale TIAP non sono ancora operativi, il personale debba procedere manualmente a scannerizzare gli atti cartacei per inviarli via posta elettronica certificata. Una procedura laboriosa e dispendiosa di tempo che, secondo la nota, mal si concilia con l’importo forfettario fissato dalla norma, applicata indistintamente anche in assenza di digitalizzazione.

La posizione del Ministero

Con il provvedimento ministeriale del 10 giugno, la Direzione generale affari interni ha ribadito che, a prescindere dallo stato di attuazione del processo penale telematico, il costo per l’invio telematico di copie di atti penali resta fissato a 8 euro, come previsto dall’art. 269-bis del d.P.R. n. 115/2002.

Il Ministero richiama inoltre i termini contrattuali per la digitalizzazione dei fascicoli giudiziari, affidata per lotti a partire da luglio 2024 e destinata a concludersi entro il 30 giugno 2026, precisando che fino ad allora il regime dei diritti di copia via PEC resta applicabile.

Un costo per ogni invio, non per pagina

Il provvedimento precisa infine che il diritto di copia si applica per ogni singola mail inviata, indipendentemente dal numero di pagine trasmesse con il messaggio di posta elettronica certificata. Una regola già chiarita dal Ministero in una precedente nota di marzo 2025, ora confermata anche per il settore penale minorile.

La situazione nelle sedi minorili

La decisione del Ministero arriva in un contesto in cui la digitalizzazione del processo penale minorile risulta ancora indietro rispetto al resto del sistema giustizia. Fino al completamento della transizione digitale, gli uffici giudiziari continueranno a gestire manualmente le copie richieste, applicando comunque il costo forfettario stabilito dalla norma.


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